MARCELLO RICCIONI | Luca Dall'Olio
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Marcello Riccioni

MARCELLO RICCIONI

LUCA DALL'OLIO

Corri velocemente il tempo in cui
Rincorrevi i tuoi sogni. Uomo cretino che
Curi con tanta grinta e gioia i tuoi umori da
Sveglio senza coscienza di ciò che nella notte
Il tuo cervello ti suggerisce, ti stimola, ti insegna.
Pura coscienza di ciò che sei, desideri, aneli.

Accade talvolta di ricordare un sogno. Immagini apparentemente vivide raccontate sottoforma di narrazione, filmica, dove vince l’idea di un ricordo prossimo, immediato, quasi senza tempo. Poi la ricerca del significato, allegorico, simbologie di visioni senza suoni che emanano unicamente stati d’animo. L’idea del ricordo, sciehtificamente impossibile da sostenere, insieme alla superstizione che in quegli elementi disorganici, fatti di immagini con piccoli spicchi di significato, possa nascondersi il nostro vero sapere, la nostra reale progenie, il nostro desiderio. Il luogo dei sogni raramente compare. Si racconta spesso dell’accaduto dove l’attore provoca o subisce, agisce o funge da spettatore. Anche la confusione genera il sogno. Rammento di aver passeggiato con mia madre-uomo dentro un giardino forse ricavato da un qualche film. Mia madre uomo; demonio addirittura un’arancia. Balza di qua e di là, senza sosta, cerca di colpire ma poi si ferma. Ricordo l’arancia e la sensazione del demonio. Tutto si appiattisce. Anche il volo; sopra il nulla, dov’anco gli occhi cerchino l’orizzonte inesistente. Ecco il piatto sospiro di un movimento ricamato dentro spazi miseri. Anfore ritagliate per contenere l’uomo protetto ed il suo più intrinseco volere. Si dice anche il sogno serva per riconsegnarci una verità, magari non assoluta, ma pur sostegno ad una vita condotta nello stato di veglia troppo influenzata da stimoli che non appartengono alla nostra natura. Freud (Sigmund) ha elaborato teorie sovrastanti il vero senso di un momento che dura, rispetto al sonno, pochi attimi. L’eterno irreale che apre porte del nostro inconscio per liberare ciò che nella vita, a volte forzatamente, rifiutiamo. Che stratagemma sarebbe educare il sogno; quanto determinerebbe la nostra mente il fatto di poter decidere cosa far apparire alla nostra retina, ad occhi chiusi, quasi per soddisfare i leniti e latenti istinti che nella veglia mascheriamo per paura di difetti in giudizi. Un dialogo con noi stessi, una maniera con la quale decifrare ciò che più vorremmo vivere come anche, per converso, debellare. Eppure accade che, malgrado ancora possano esistere fantomatiche superstizioni e letture approssimative (cabalistiche) di sogni così detti veritieri, quando chiudiamo la nostra parte conscia il nostro io (poco magico) diventi una bomba in continua evoluzione, trasformazione, collante tra ciò che il cervello riconoscerebbe come vero e qualcosa che forse è esistito ma che non possiamo rammentare. Nessuna profondità in questo. Nessun orizzonte, se non miti sensazioni di impossibilità ad urlare qualcosa a qualcuno che sembra scappare. Incubo? E ancora insistiamo in questa breve vita ad avere dei sogni senza nemmeno il pensiero della realizzazione. Quale inganno allora? Mi hanno chiesto se il contrario di vita fosse morte. Ho risposto con istinto che la morte non esiste. Una visione di trasformazione, semmai, sì. E ancora mi chiedo, a fronte di milioni (forse oggi meno) di credenti il perché del pianto dinnanzi alla morte. Se ben esiste nel “sogno” dell’uomo peccatore e redento quel pezzo di paradiso in cui celebrare la propria vita trascorsa a fare del bene. Perché il pianto? Il sogno di sopravvivenza ha ucciso il sogno di sopravvivenza. Così perdiamo lo spazio del vissuto, in cui anche l’immagine onirica diviene elemento fondamentale di visione. Perdiamo il senso della semenza, in cui anche il sogno è parte integrante di un’origine a cui apparteniamo. Perdiamo la reale consistenza di un mondo che, come noi, ha stati di sonno in cui modifica e scardina i propri elementi. Perdere queste immagini significa andare all’inferno. Semmai il male come assenza di bene possa condurre al luogo di fiamme. Non esiste dolore fisico, nessuna circostanza di sangue, mai una morte provata se non nella sola sensazione. Poi la ricerca di una verità che subito subentra quando, immobili, ci accorgiamo di respirare e con altrettanta semenza sappiamo di essere svegli. Appurata la verità ritorna lo spazio, tridimensionale, in cui tutto è perfettamente collocato, dove il riconoscimento di ciò che abbiamo appurato esistere è perfettamente nel luogo predisposto. Alienazione dei contenuti. Gabbie aromatizzate dentro cui ogni volo è superfluo, ingenuo, inutile, copiabile, finto. Meglio far apparire il tutto senza un dialogo estremo, facendo assente la matematica esistenza del vero; così, senza soffrire troppo di una condizione troppo mutevole. Non si confonda la visione con il sogno. Due mondi nel contemporaneo fortemente condizionati da confusione. Non sogni quelli di DDrer, Goya, Chagall; visioni in stato di veglia provocate dall’alterazione dei sensi. La medesima che sopravviene quando una volta abbandonate le certezze immodificabili tutto si amplia, la percezione dei rumori, delle misure, dei vuoti e dei rimbombi che assomigliano a rintroni di campanili e campane cadute a terra. Una scossa che non disturba l’opera di Luca dall’Olio; temperato e allo stesso modo impaziente di giungere al termine del suo sogno. Ha conquistato la quiete, dopo alcuni affanni e sortilegi di mondi incantati che esprimere significava mutare e mutilare. Poi eco il sogno trasformato in visione. Sapienza maturata durante buie ispirazioni colorate. Il primo affronto è il mondo dietro il sogno. La visione nella visone; quinte teatrali che gestiscono un mondo incontaminato, parallelo al puro desiderio di sopravvivenza. Dicono che i ciechi sognino sensazioni di colori. Dicono. Se questo fosse vero così sarebbe anche per l’opera del “maestro delle città incantate” sopravvissute al cataclisma del controllo dell’uomo. Non paesaggi utopici, irreali, fantastici o fiabeschi. Qui nessuna narrazione è più forte del senso di verità che spinge, dovrebbe spingere, l’uomo a soffermarsi sull’unico particolare di una città che in quello vive il suo rapporto. Rapporto stretto con il piccolo. Lungimirante educazione, se vuoi, che sprona alla ricerca di una condizione essenziale perché misurata nella sua autenticità. Autenticità del piccolo, dell’auto-sostenuto, del microcosmo dentro cui vivono le stesse cellule che formano il grande. Ecco le navi, che infondono la coscienza di un mondo in continuo moto. Paesaggi, si diceva città incantate, dentro cui diramano diverse strade, sentieri, ruscelli. Nessuna finestra. Nessun per quel mondo esterno ci troviamo. Semmai la condivisione della visione, da parte di occhi nascosti che mirano a che tu veda ciò che di grande stai contemplando. La visione nella visione, il sogno nel sogno, lo sguardo dentro lo sguardo. Ma se poi il soldato schiera la sua arma letale verso il castello dei sogni come faranno le generazioni a venire a ricavarne i principi ed il significato? Come potranno questi ritrovare l’incanto? Morte e vita. Nessuna morte potrà mai reclamare la vita che già in essere ritorna dopo la morte. Trasformazione? Possibilità di un ritorno? Sì. Ma vogliamo le città fiere di tale nome. Quei paesaggi che incantano nella loro monocromia, nelle loro ombre impersonali, bislunghe, ricamate dalle stesse forme di piante che agiscono nel limbo della nostra infanzia. Nel sogno si apre, di colpo, il materiale d’archivio; una sensazionale proposta di immagini che corron—o senza stimoli preordinati. “Diremmo che il cervello si apra da solo, non più controllato, i cassetti dei ricordi, ne estragga alcuni a casaccio, formi, con elementi prelevati, in tempi ed in luoghi diversissimi, un nuovo quadro: appunto la nostra favolosa città del sogno”2. Se pensiamo al percorso di Luca dall’Olio tutto sembra finire al suo inizio. Perché in fondo nel sogno non esiste evoluzione. Immaginiamo di nascere ancora nella non conoscenza del nostro essere. Puri, sognatori dei liquidi e dei rumori acquisiti dentro la placenta, nell’involucro d’orina in cui sangue è nutrimento. Bambini che mai hanno vissuto la vita e che sognano l’origine; immaginiamo di poter riesumare dalla coscienza di una tristezza comune l’idea di una città ideale (come spazio di vita) che in noi esiste. Levati i muri che delimitano e recintano di confini inutili le proprietà, allora, in quel sentiero di libertà potremmo riappropriarci della purezza del pensiero. Quindi non evoluzione ma ritorno ad una origine che in noi esiste, celata, rinchiusa, coperta e annichilita dalla veglia e dall’educazione ad occhi aperti. In questo ritorno oggi il paesaggio incantato incarna questa pulizia. Rigore, anche, in cui il riordino della memoria non diviene casuale, in cui la coscienza di una verità nascosta dalla veglia possa semmai determinare un ritorno al normale. Perché non trarre dai sogni risposte concrete per la nostra coscienza. Una legge sana pronta a fornire il massimo del bisogno nel minimo sforzo. Parlavo di riordino e ordine. Ecco come si presenta il sogno ripulito di Luca dall’Olio; ecco come il dipinto diviene visione immediata e ripetuta di elementi ordinati e fatti riemergere dalle più segrete e lontane condizioni. Dal caos all’ordine; dallo scioglimento della linea, quasi Chagalliana, ad un regime in cui tutto dialoga senza rumore dentro un paesaggio creato con lo scrupolo della sopravvivenza degli elementi abitatori. Così, serenamente, dialogano pesci con mamme, eclissi con stelle, il dritto ed il rovescio, come anche la prua di una nave con lo stesso mare che non sembra sentirne il peso; immagini senza tempo che incarnano, nel nucleo abitato, il fascino del lontano medioevo in cui si osservava (si osserva) il circondato. È bello risvegliarsi nel sogno, altro assunto illogico in cui l’attore della visione è consapevole di ciò che sta vivendo nella non realtà e capire.

Marcello Riccioni

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